Solo l’1,5% delle nostre foreste è tutelato; siamo all’ultimo posto nella lista dei Paesi a più alto sviluppo
Andare a passeggio nel bosco della Fontana ( Marmirolo ) è senz’altro piacevole oltre che istruttivo. Nei suoi 223 ettari di vegetazione albergano il cinghiale, la donnola, il nibbio bruno, la gallinella d’acqua, il pesce gatto e tante altre pacifiche creature. Ma la passeggiata ecologica induce anche ad un’amara riflessione: ciò che il visitatore vede attorno a sé è soltanto un frammento di un bosco che anticamente si estendeva dalle colline del Garda alle paludi del Mincio, intorno a Mantova. A poco a poco l’uomo ha trasformato quel enorme manto verde in una riserva di legname e in terreni per l’agricoltura.
Ciò che è accaduto alla foresta dei Gonzaga si è ripetuto in altre parti d’Italia: l’abbattimento di alberi continua a ritmo sostenuto , come se si trattasse di esuberi.
La realtà è ben diversa: su trenta milioni di ettari solo 450 mila sono ( parzialmente ) tutelati. 250.000 ettari sono costituiti dai parchi nazionali, 60mila dalle riserve forestali statali, 20 mila dalle zone umide e dai rifugi faunistici. Praticamente solo l’1,5% del nostro patrimonio verde è tutelato, il che colloca l’Italia in fondo alla lista dei Paesi più avanzati.
In Lombardia la superficie boscata è di 479.035 ettari, pari al 20% del territorio regionale, di cui 45.596 sono aree a pioppeto. La produzione legnosa totale è di 274.182 metri cubi, di cui 848.81 derivano dalla pioppicoltura. Il disboscamento praticato nelle zone montuose e collinari della nostra regione si traduce in frane e valanghe. La vegetazione boschiva non è solamente “coreografica”; le radici – espandendosi in profondità – trattengono il terreno anche sui ripidi pendii. Mentre la vegetazione del sottobosco limita lo scorrimento dell’acqua impedendo il dilavamento e l’erosione del terreno. Purtroppo il disboscamento avviene in buona parte della penisola, e a dare una mano alla distruzione della vegetazione ci sono gli immancabili incendi boschivi e le piogge acide.
Nemmeno i Paesi ricchi di foreste possono permettersi l’attuale livello di sfruttamento delle stesse. I satelliti Landsat stanno osservando la distruzione delle foreste tropicali, cioè un’imponente massa vegetale che stabilizza il clima e frena l’avanzata dei deserti. Infatti oltre il 70% delle radiazioni solari che investono la foresta tropicale fanno evaporare l’umidità, mentre il 30% riscalda l’aria e il terreno. Il fitto fogliame sbarra il 20% delle precipitazioni; esse evaporano prima di raggiungere il suolo, mentre il 40% ritorna nell’atmosfera tramite la traspirazione. L’acqua che entra nelle falde sotterranee è meno di un quarto di quella che arriva sottoforma di pioggia, il che impedisce il dilavamento del terreno. Il buio, l’umidità e l’elevata temperatura favoriscono la crescita dei funghi e dei batteri che decompongono le foglie e i rami morti: questo processo dura sei settimane ( mentre nelle zone temperate occorre almeno un anno ) e ciò impedisce la formazione di uno strato di humus spesso e durevole. Quando gli alberi vengono recisi, il terreno diventa preda della radiazione termica e delle piogge che distruggono l’humus e inaridiscono il suolo.
La foresta amazzonica è il risultato di mutazioni geologiche e climatiche avvenute in milioni di anni, ma essa è vittima di un rapido degrado. Questo continente verde che abbraccia il Brasile, la Bolivia, il Perù, l’Ecuador, la Colombia, il Venezuela, la Guyana, il Suriname e la Guyana francese, il bacino dell’Amazonia costituisce un terzo delle foreste umide del Pianeta, ma oggi esso è soltanto la metà di quello che era alla fine degli anni Trenta; ciò che manca è stato trasformato in legname, miniere, campi, pascoli e strade; nel solo Brasile mezzo milione di chilometri quadrati di foresta sono letteralmente spariti.
Quando, negli anni Sessanta, il governo brasiliano diede via libera alla costruzione della Transamazzonica ( 5.400 chilometri dall’Atlantico al Perù ) pensò di utilizzare le aree disboscate per l’allevamento del bestiame e per l’agricoltura. Gli agricoltori si dedicarono alla coltivazione del riso, ben sapendo che esso non poteva essere tenuto sullo stesso terreno per più di due anni.Al’ l’inizio la cosa non sembrava costituire un problema; man mano che i buldozer spianavano la foresta veniva bruciato sul posto il legname, fornendo così la cenere come fertilizzante. Ma le piogge tropicali dilavarono i terreni condannando agricoltori ed allevatori al continuo esodo verso nuove zone da disboscare.
Oggi un terzo dell’Amazzonia è andato perduto, e con esso le specie animali che formavano l’ecosistema . Si è trattato di una distruzione inutile, dato che uno studio brasiliano ha individuato zone più fertili e le coltivazioni più adatte all’area amazzonica. Secondo tale studio, se il 10% della superficie indicata fosse sfruttata con intelligenza, le capacità agricole del Brasile raddoppierebbero senza danneggiare l’ambiente.
Il cosiddetto terzo mondo ricava 8 miliardi di dollari all’anno dall’esportazione di legname, ma questo sfruttamento è generalmente poco oculato .Venticinquemila chilometri quadrati di foresta si convertono ogni anno in legna da ardere., mentre 150 mila chilometri quadrati spariscono per far posto all’agricoltura “volante”. I principali esportatori di legname tropicale duro sono: la Malaysia, l’Indonesia, le Filippine, la Costa d’Avorio e il Gabon; questi Paesi forniscono circa l’80% di esportazione di legname; i principali acquirenti sono: il Giappone, gli U:S:A: , la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Germania occidentale, i Paesi Bassi e la Spagna. Attualmente il consumo di legno tropicale è in aumento in questi Paesi; oltretutto le compagnie che operano in questo settore non sono in genere obbligate ad interventi di riforestazione, rendendo il problema ancora più drammatico.
Testo e foto di William Lugli